domenica 26 febbraio 2012

Raccontino 2/n (Maggio 2010)


Una virtù essenziale

Erano le cinque.
Rientrata in casa col fiatone Amelia si chiuse dentro col chiavistello: era sola.
Senza neanche togliersi la giacca corse in camera, per cercare qualcosa.
Sicuramente, quel qualcosa Filippo glielo aveva lasciato, prima di partire, come sempre…
Ogni volta era una caccia al tesoro, ormai svelata.
Sul cuscino un foglio, una nuova traduzione:

«- Io e lui, sempre noi due quando intorno tutto tace -
Grazia, ottantatre anni, vedova da tre, a ferragosto ancora più sola.
Lucio, venti anni, pianista da tredici, a ferragosto contento della casa vuota e della strada deserta: sono tutti fuori città e nessuno si lamenterà se per dieci ore Chopin e Beethoven non daranno tregua al silenzio.
Grazia è seduta davanti la finestra coi piedi gonfi sullo sgabello, accanto a un tavolinetto su cui sono disposti ordinatamente la foto in bianco e nero di Francesco in divisa, le medicine per la circolazione, quelle per l’ipertensione e un pacco di assorbenti per la sua incontinenza. I suoi tre figli non potevano portare in vacanza un bagaglio tanto voluminoso: cento chili di generosità e lentezza.
Lucio deve studiare per l’esame più importante della sua vita e rinuncerà anche a questo Ferragosto per “bruciare il programma” entro la fine dell’estate.
Grazia brucia di caldo, ma non apre la porta per paura di qualcuno che potrebbe approfittarsi di vecchiaia e solitudine per rubare quel che resta della pensione dopo le paghette date ai nipoti. Grazia non conosce la musica classica, non ha idea di chi abbia scritto le note che riempiono la Via Leopardi, ma ascolta e guarda attraverso i vetri, il suo confine, la coda del piano e le mani di Lucio che ripetono passaggi e girano pagine su pagine».

E buon ferragosto anche a chi non va in vacanza! 

pensò Amelia.
In calce qualche parola di profondissimo affetto… e profondissima quiete una volta nel letto gelido: dietro chi non parla non c’è chi non ha niente da dire, ma senza sofferenza non si può scrivere che stupidaggini, però si può guardare il soffitto e vederci il cielo blu che senza stelle tace e ha come unico occhio assonnato una falce di luna calante. 

Quale confine?
Quale storia, parole?
Quali pietre, Patria?
 
si chiese.
Il confine è quello oltre il quale bisogna spingersi, a fatica, per non lamentarsi.
Il confine che una volta superato ti mostra il rovescio della medaglia: meraviglia!
Una vita trascorsa a errare pensando di eccellere, piangere per non ridere: esagerare.
Dire che il bianco è nero, che i meriti sono colpe, che “nessuno è perfetto, tranne me”… eppure, vari rovesci per questa medaglia: nonostante la “lapidarietà” di certe parole, tutti quelli che ti girano intorno, e girano e girano, nonostante tu dica di esser sola, hanno imparato da te una virtù essenziale: la pazienza. E Giobbe non è nessuno messo a confronto con l’uomo che da cinquanta lunghissimi, temerari e strani anni ti ama.

Perché?

mormorò.
Che controtendenza chiedersi il perché dell’amore dei propri genitori, chiedersi perché quell’amore non è finito nottetempo, perché è iniziato, addirittura.
Quale storia?
La storia di una vita di stenti, condotta nella quasi ignoranza, nell’oppressione dell’occhio opprimente della gente. Tutta, non solo quella brutta. Per poi lasciare pietre, scolpite senza un vero perché, con facce, bestie, e moltiplicazioni di sé che le ruspe hanno buttato giù.
Storie di reclusioni laddove la libertà, non solo espressiva, doveva essere l’incontrovertibile.
Storie di preponderanza mentale di una mente tutto sommato debole.
E allora a che scopo odiare? Le pietre nel cuore si spostano, si urinano come la rena dei reni.
Sono le otto e come ogni sera squilla il telefono: è sua madre (quando parli del diavolo…) che piange perché le vicine vacanze di Natale saranno troppo brevi. Ma quando si è felici? Realmente?

Quando?

Il libro nella borsa aspetta di essere tirato fuori, letto, capito.

Sarei felice di tornare indietro, sarei felice di fare un salto in avanti, sarei sensata se stessi zitta, muta in testa e senza pensiero alcuno.
Rimuginare per rimuginare equivale al predicare bene e razzolare male, mentire sapendo di mentire. Non sono più io o me ne voglio convincere, mi voglio convincere di essere stata una persona migliore mentre ero tale e quale, ma solo meno sincera con me stessa.

Parole come pietre… zavorre!
Figure miste e condensate come nei sogni.
Sia alzò dal letto basso, andò in cucina a riempirsi il bicchiere di vino e aprì il frigo dal quale le arrivò in faccia una zaffata dell’odore del camembert che aveva portato da Parigi, non l’avessero mai fatto!

«Vino vinello, l’odore è bello,
il colore è frizzante e le sinestesie sono tante!
Merlot, senti un po’, annusa però.
Ascolta il gusto mentre nuoti nel mosto!»

Amalia lesse sul post it, sull’anta del frigo, la traduzione della filastrocca che aveva fatto vincere a Filippo quel concorso, quell’occasione, nuova, che, nuovamente, lo aveva allontanato. Fuori dal terzo piano la strada brulicava di gente impazzita che combatte la crisi a colpi secchi di shopping, Amelia l’aveva guardata senza vederla rincasando, e la vide ora, che si sporse a chiudere le lamelle, e vide gli artisti di strada che strimpellavano motivetti natalizi con strumenti di fortuna passare tra quella gente che aveva tutte e due le mani occupate dai pacchetti per prendere un euro dalla tasca.
Scrivere per scrivere, per riempire qualche pagina, può anche essere una scusa per non fare ciò che devi, ciò per cui ti pagano.

Ci vuole sofferenza per entrare nel tunnel, ci vuole sofferenza per uscirne, ma non ne sono sicura… 

Soliti pensieri della buona notte, che si fanno più sonori nella rara solitudine. Anche quando hai cambiato le lenzuola, il taglio dei capelli e i colori per non morire lentamente, “nerudianamente”.
Nudamente, bisogna ammettere di aver perso l’obbiettivo e trovarne uno nuovo, nuovamente.
Si svegliò sperando di essere migliore del giorno precedente, ma si ritrovò nello stesso letto la sera, con un pugno di nuove scuse, un pizzico di buoni propositi e un mazzo di sensi di colpa.
L’indomani.
L’altro ancora.
Basta! Si parte!

«Arrivo a Madrid Barajas domani all’una e dieci, mi riconoscerai dalla valigia di cartone piena dei nostri dieci anni insieme! P. S. Ti porto gli spaghetti: ho imbarcato l’Italia come “bagaglio speciale”, solo così potrò attraversare il confine».

Tripla mandata, tre lucchetti alla bici, tre libri: quello per la tesi, Terra matta, e il vecchio manuale di lingua spagnola; tre mesi di affitto anticipati, tre esami alla laurea, tre parole di commiato, non una di più.
Mentre aspettava di imbarcarsi scrisse un sms:

«”Solamente la ardiente paciencia hará que conquistemos una espléndida felicidad”. Non imparta se non capisci lo spagnolo. Grazie mamma, ci vediamo il prossimo Natale!»

Lo scrisse a se stessa, come promemoria, la destinataria non avrebbe saputo leggerlo.

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