lunedì 21 agosto 2017

Raccontino 6/n (Febbraio 2017)

Oltreoceano

Una tavolata apparecchiata con una tovaglia di cotone a quadri bianchi e blu, in mezzo alla strada, e pochi ospiti, più o meno graditi. Era in corso una discussione animata e senza senso. Poi ho guardato in alto, pensando che quell’atmosfera cupa potesse essere alleviata dalla possibilità di scorgere la striscia di cielo delimitata dai secondi piani delle case di via Respighi. Il cielo infatti era là, grigio e disincantato anche lui, ed una serie di nuvole disegnavano forme stellari di un grigio più chiaro. Si muovevano armonicamente e la loro visione diventava vertiginosa. Nel frattempo i suoni della conversazione divenivano sempre più attutiti, come annacquati, e le forme in cielo somigliavano sempre più a… palme? Sì, ma non le solite vecchie palme che il punteruolo aveva sterminato: no, queste erano palme esotiche, cinematografiche, di quelle che puoi trovare e poi bruciare in piazza Duomo a Milano. Più le guardavo e più mi convincevo che erano palme, molto alte, che mosse dal vento facevano capolino sopra i tetti. I loro contorni, però, non erano nitidi, era come se si ergessero sopra il pelo dell’acqua, un liquido asciutto dentro il quale per qualche ragione io e i miei commensali, la tavola, la tovaglia a quadri, e via Respighi, ci trovavamo. Una visione spiazzante, di quelle che sin da piccola mi hanno causato il magone (che in seguito avrei riconosciuto nella descrizione di “perturbante”), come le zolle di terra seccate dalla siccità, gli spilli infondo al water che non andavano via con lo sciacquone, o quella porta marrone verniciata di bianco, che urtata da un oggetto acuminato ha mostrato la sua vera natura: un’inaspettata venatura, scura. Dovevo immortalare quel cielo, o nessuno mi avrebbe creduto, allora ho preso il cellulare dalla tasca del grembiule e ho fatto un video di qualche secondo. Una prova tanto breve quanto schiacciante. Nel frattempo la sveglia sul pavimento suonava, prima dentro il sogno, e poi, progressivamente, fuori dal sogno. La mia ditata quotidiana al cellulare - indolenzita dall’ultima scorpacciata di unghie - ha posticipato di qualche minuto il secondo ti ti ti ma, ancora intrisa di sonno e di sogno, ho sollevato il cellulare nel buio cercando con l’unico occhio semi-aperto il video che avevo fatto alle palme mosse dal vento, riprese da sotto il pelo dell’acqua. Non c’era (più). Ah, già.
Solita tiritera. Caffè cubano, latte fresco e tre biscotti integrali fatti col grano di Altamura e senza olio di palma - giura la confezione. Fuori è ancora buio ma la vicina di destra s’è alzata ché deve accompagnare Ernesto a scuola alle 8. Tutto sommato sta andando meglio dell’inizio, di quando si trasferirono: a quell’età non ci sono ancora i drammi adolescenziali e il bilinguismo è un processo molto più indolore di quanto lo sia stato per sua madre. O per me. I vicini di sinistra hanno già mandato i due cani che vivono con loro in cinquanta metri quadri a fare la pipì un paio di volte. La giornata promette bene, si prevedono 26 gradi di massima e 21 di minima.
Nel mio consueto percorso verso il lavoro, coi capelli ancora bagnati che profumano di mela verde, che il vento non asciugherà a causa dell’umidità, in prossimità del lago, mi rendo conto che forse via Respighi era proprio laggiù, in fondo allo specchio d’acqua, insieme ai pesci che saltano, a quelli di cui gli ibis sono ghiotti e a strane specie di rettili e anfibi che solo qui… Mi fermo un attimo, guardo in alto e vedo le stesse palme che vedevo nel sogno, stavolta disposte in fila a delimitare la riva e mi chiedo che strani giri facciano le fotografie scattate dal mio cervello. Beh, sempre meglio di quando trascorro notti intere a sognare di salvare con nome file .docx e .pdf.
Mentre cammino, scrivo a mia sorella un riassunto dettagliato del mio sogno e non manco di aggiungere particolari sui commensali, che potrebbero essere di suo interesse. Faccio un sacco di errori perché il sole che batte sullo schermo mi impedisce di vederlo. Lei mi manda l’emoticon che ride con le lacrime. Poi mi scrive che ha finito di pranzare, da sola, e mi manda quella col bacetto a forma di cuore: aggiorniamoci - scrive. Mando a mio papà un messaggio vocale per avvisare che torno tardi dal lavoro, quando in Italia saranno già le 5 del mattino, quindi, niente, ci sentiamo domani. Che tenero: ha imparato a fare il pollice in su, finalmente. Whatsapp per un ultra-settantenne dev’essere un’altra forma di bilinguismo tardo.
I miei studenti mi aspettano annoiati, sollevano appena lo sguardo dai loro dispositivi elettronici per rispondere al mio saluto esaltato. Tiro giù il telo del proiettore e ha inizio lo show. Molti di loro mi conoscono da tempo e apprezzano il mio entusiasmo, ma quelli nuovi pensano che sicuramente tiro cocaina prima di ogni lezione e non riescono a togliersi quello sguardo interrogativo dal volto. Devo tenere alto il morale delle truppe, ma non sono né Marilyn Monroe, né Mary Poppins, né tanto meno Yuja Wang. E non è una cosa semplice quando hai davanti dei ventenni con la maturità di dodicenni e la stanchezza esistenziale di ottantenni.
Tutto chiaro sul periodo ipotetico, Chan? No, Dorino, non puoi leggere sempre tu. Un altro volontario? Il narratore e l’autore non sono la stessa entità, Nikolaus. Quando parli in spagnolo ti devi sforzare di far vibrare quella “r”, Allison. La lezione è finita, andate in pace.
Corro alla riunione. Sudo, naturalmente, e penso che se sto sudando il giorno di san Valentino il riscaldamento globale - checché (se) ne dica - esiste e come. Ormai mi sono abituata a tutto, anche a quest’estate perenne, e mentre progrediamo nell’ordine del giorno che poteva essere interamente affrontato con una email ben assestata, penso che però c’è una cosa a cui non ci si può abituare: il reparto orto-frutta del supermercato.
No, non parlo dei carciofi a 4.65 l’uno, quello si risolve non comprandoli e inserendoli nella wish list di cose da ingurgitare in un mese quando sei a casa. Mi riferisco piuttosto al getto d’acqua continuo sugli ortaggi. Ho chiesto: ma perché? Mi hanno detto che è per mantenere gli ortaggi fresh. Certo, è importante che l’aspetto di questo preziosissimo carciofo sia fresco qui, e una volta nel mio frigo marcisca in due giorni. Ovviamente, dato il prezzo, non si potrà solamente procedere al suo lancio nella pattumiera. Come minimo ci vorrà un vero funerale.
E se non ci sono varie ed eventuali, la riunione può dirsi conclusa. Ci salutiamo in fretta, con alcuni in inglese, con altri in spagnolo, certi fanno i fighi in francese, o i piacioni in un italiano improbabile. Ma la parte importante è che tutti hanno (abbiamo) fretta. Sempre.
Mentre vado a ritirare in biblioteca quei quindici libri che devo leggere questa settimana, vedo che nel frattempo sono arrivati video demenziali in quel gruppo che sembra un campione delle ragioni per cui ce ne siamo prima scappati dalla Sicilia e poi andati dall’Italia. C’è di tutto: gente che preferisce lavorare a nero per non pagare tasse e prendere la disoccupazione, gente che fa figli senza avere un lavoro perché tanto ci pensano i nonni, gente che lavora un paio d’ore al giorno se va bene ed ha bisogno di una vacanza, barzellette razziste, battutone omofobe, da sbellicarsi proprio, inutili buongiorni, non richieste buonenotti, cuori e rutti.
Alle 9 di sera rifaccio il percorso al contrario, come ogni giorno. La sua bici blu è legata alla rastrelliera fuori dalla scuola di musica: ne avrà ancora per almeno un’ora. Cammino per 13 minuti nella pace che solo un quartiere residenziale può garantire e mi perdo nei miei pensieri.
In questo lustro ne sono accadute di cose, molte più di quante potessi immaginarne dal mio divano italiano dove, immersa nella noia e nella paranoia mitragliavo di curriculum il WWW. Poi c’è stata la ‘merica, con tutti i suoi paradossi: contraddizioni grandi come grattacieli, sterminate come il deserto dell’Arizona, inspiegabili come le dinamiche che hanno portato al risultato delle ultime elezioni. Quando ho messo piede negli USA ero intrisa di occidentalismo, ed è buffo che l’abbia scoperto proprio nel west più west. Apprezzavo l’Europa e la sua storia, ma dovevo venire fin qui per capire bene i suoi errori, specialmente di valutazione e autocompiacimento, i quali, in piccolo, ho perpetrato anch’io nella mia quotidianità. Certo, l’America ha un sacco di difetti, belli grossi, ma è particolarmente illuminante che proprio qui io abbia avuto la possibilità di vedere quanti di essi erano già in me, inconsapevole snob dalla prospettiva privilegiata.
Una volta a casa, mi metto a preparare il pesce con l’alieoli: l’uno gli è utile per ricordarsi tutte le note del primo concerto di Brahms e l’altro gli abbassa la pressione – razionalizzo. Mentre pelo l’aglio metto Le Iene sul tablet e c’è proprio un servizio su Trump. La vicina di destra urla in cubano stretto a suo figlio di non trascorrere tutto quel tempo sotto la doccia (manco fosse un carciofo) e lui le risponde in inglese, come un vero gringo. Si sente tutto: i muri sono sottili e in qualche modo favoriscono la proliferazione degli scarafaggi. Miami è infatti la terza città degli Stati Uniti a vantare il più alto numero di queste simpatiche bestiole.
Miami: cool! Quando in Italia dico che ci vivo ho sempre a che fare con risposte standard. Ci sono quelli che ci sono stati in viaggio di nozze e “avrebbero voluto rimanerci per sempre”. Poi ci sono quelli che non ci sono mai stati ma sanno tutto di lei, e vorrebbero tanto andarci e rimanerci per sempre. Poi ci sono i propositivi: l’Italia dovrebbe essere come Miami (pur non avendo la più pallida idea di come sia Miami in realtà)! Ed infine ci sono i disfattisti/complottisti: che schifo l’America e TUTTI gli americani /non ci andrei mai/l’America è qua (e parte il sottofondo di mandolini, mentre in lontananza, sporta su un faraglione, la mamma ti urla che la cena è pronta e ti arriva in faccia una brezza che sa di Mediterraneo e pizza Margherita).
Per me Miami è un’altra cosa. È varietà: di gente, di idee, di genere, di razza. È pappagalli variopinti che volano liberi nel cielo. È lucertole assurde. È PhD, pagine, e nuovi orizzonti del sapere. È sacrificio e lavoro. È possibilità. È impossibilità. È casa e famiglia. È lontana dalla casa e dalla famiglia. È molte cose di cui lamentarsi. È felicità a momenti. È fortuna di esserci finiti. È zero carciofi. È anche Cuba. Non è mare né vacanza. È interminabili videochiamate. È aria condizionata a palla. È una parentesi tra noi e un futuro incerto. È un apostrofo in neretto tra le parole “c” e “ho sonno”.

Così, punto la sveglia del telefonino alle 5, lo poggio a terra e già che ci sono decido di restare su questo fianco, come estremo atto di altruismo. Buona notte e sogni alieoli.