martedì 5 dicembre 2017

Shall we speak out?

Ieri, mentre il professore top del mio dipartimento ci rinfrescava la memoria sulla teoria di Spivak sul potere locutivo dei subalterni, mi ha fatto partire una sinapsi grottesca. Ho pensato che per un lungo periodo della mia vita sono stata subalterna, e che ho dovuto imparare la lingua del potere per ritagliarmi una fetta di autonomia. Ed in quel momento, quando ho realizzato che continuare a parlarle nella mia lingua non sarebbe servito a un cacchio, mi sono un po' prostituita, ho smesso di essere subalterna tra i subalterni, sono entrara nel rango di chi attraverso il linguaggio del padrone esercita le sue piccole libertà, i suoi piccoli diritti. Ho anche pensato che, come dichiara l'artista Finotto in una delle belle interviste del suo libro, anche a casa mia non c'erano molti libri quand'ero piccola (a parte quelli di economia di fratemo), che l'enciclopedia dei bambini comprata per avere in regalo il pupazzo di Snoopy era ferma alla r, e che quando dopo un po' ho iniziato a comprarli io "facevano disordine". Allora, visto che questo Natale la mia libreria si deve svuotare, smontare, trasferire, rimontare e ri-riempire, mentre viaggia verso casa nuova, i miei libri possono fare un po' di disordine nel salotto del potere, sotto forma di albero natalizio-equino-troiano: una specie di rivoluzione interna e silente in lingua straniera.

martedì 24 ottobre 2017

Quella brava gente smemorata

Ieri la presentazione di Giuseppe Catozzella è stata intensa e stimolante! Mi ha fatto pensare a quanto inutile appaia iniziare una conversazione con persone che non vogliono capire, ma mi ha fatto riflettere sul fatto che questo è uno dei pochi modi che abbiamo per sconfiggere l'ignoranza. Rinfrescando la memoria di coloro che la perdono ad ogni occasione. Come quegli italiani del sud che non ricordano che erano (a volte sono ancora) loro ad essere chiamati "sporchi", "ignoranti", "degenerati", "maniaci sessuali", "ladri". O quegli americani descritti da John Steinbeck che ora non si vergognano di definire "l'altro" nello stesso modo in cui sono stati definiti (anche se era "da paesano a paesano"):
Nell'Ovest si diffuse il panico di fronte al moltiplicarsi degli emigranti sulle strade. Uomini che avevano proprietà temettero per le loro proprietà. Uomini che non avevano mai conosciuto la fame videro gli occhi degli affamati. Uomini che non avevano mai desiderato niente videro la vampa del desiderio negli occhi degli emigranti. E gli uomini delle città e quelli dei ricchi sobborghi agrari si allearono per difendersi a vicenda; e si convinsero a vicenda che loro erano buoni e che gli invasori erano cattivi, come fa ogni uomo prima di andare a combatterne un altro. Dicevano: Quei maledetti Okie sono sporchi e ignoranti. Sono maniaci sessuali, sono degenerati. Quei maledetti Okie sono ladri. Rubano qualsiasi cosa. Non hanno il senso della proprietà. E su quest'ultima cosa avevano ragione, perché come può un uomo senza proprietà conoscere l'ansia della proprietà? E i difensori dissero: Sono sporchi, portano malattie. Non possiamo lasciarli entrare nelle scuole. Sono stranieri. Ti piacerebbe veder uscire tua sorella con uno di quelli?
Quindi, probabilmente, la prossima volta che vedo qualcuno pubblicare/dire la cazzate dei 35 euro al giorno (e affini), mi prenderò il tempo per spiegare quali sono le NOSTRE incommensurabili colpe. 

lunedì 16 ottobre 2017

#metoo

Il fratello maggiore della tua compagna di classe che mentre torni da scuola ti tira su la gonna per goliardia; il teppistello di turno che per carnevale ti riempie la faccia di schiuma per metterti una mano sul culo perché a carnevale ogni scherzo vale; l'adulto viscido che con "galanteria" e mani lunghe ci prova ripetutamente anche se hai 13 anni e già solo per questo i tuoi "no" gli suonano meno convincenti di un ceffone ben assestato magari da una sua coetanea; il maiale che si fa una sega alla fermata dell'autobus accanto a te... nessuna di queste è un'"aggressione sessuale" in piena regola, ma ognuno di questi casi giustificherebbe il #metoo che in queste ore sta dilagando su internet. Questo hashtag non mi disturba affatto, non è una rimostranza fine a se stessa come se ne vedono troppe. Questo hashtag, invece, può dare l'idea di quanto radicata sia l'idea di ragazzata innocua, del "niente ci fa", che sminuisce il fastidio (nel migliore dei casi) che una bambina/ragazza/donna può provare davanti a certe libertà che alcuni maschi si prendono solo perché hanno un pisello e due palle (nel migliore dei casi).

venerdì 29 settembre 2017

"Accadde oggi"

La sezione "Accadde oggi" di Facebook mi ricorda cose: a volte prive di senso, altre molto belle; mi ricorda avvenimenti e pensieri che avevano molta importanza un tempo e che l'hanno persa tutta, mi ricorda persone, luoghi, ma soprattutto mi ricorda com'ero.

Sei anni fa, alle 17:47 ora italiana scrivevo:
alla ricerca dell'oblio, del girovita, del gas esilarante, del modo per dire no, (preferendo i no ai nulla), delle ragioni senza ragione, e dei frutti da raccogliere da una foresta di fotocopie!
posso dire "che palle"?
che palle!!!
ma la panacea c'è: è brahms <3
Ricordo esattamente tutta l'inerzia di quei giorni, l'immobilità di cui ero artefice e vittima. Anche in certi rapporti ero bloccata nella convinzione che dipendesse tutto da me, il buono e il cattivo tempo, che dovessi fare la prima mossa sempre e comunque. E nel frattempo passavano le ore, mentre mi concentravo su cose completamente inutili, intrappolata in una stanchezza giustificata solo dal lavorio della paranoia. La mia mente si concentrava su come trovare lavoro o meglio come il lavoro avrebbe potuto trovare me mentre, sdraiata sul divano, portavo avanti la cervellotica redazione del mio CV.

Oggi, dopo sei anni, nonostante un paio di cose di cui lamentarmi le trovo ogni singolo giorno, nonostante i tanti bassi che si alternano a qualche significativo alto, sono OK. Ho appena inviato alla commissione della mia tesi di dottorato la proposta di dissertazione. Al suo interno ci sono conoscenze e saperi che mai sei anni fa avrei immaginato di poter avere nella vita; di cui non immaginavo l'esistenza. Ci sono anche errori e tiri da correggere. C'è tutto l'inglese che posso, al momento. Ci sono i risultati di tre anni di smarrimento + crisi + letture + lezioni date e ricevute parole + paure + albe + giustificata stanchezza. Il difficile deve ancora venire, ma tanto, tanto difficile è già passato, e il fatto che la vecchia me non sarebbe mai stata in grado di muovere un passo in questo marasma mi fa sorridere.

Mi sto per immettere in una settimana particolarmente impegnativa, ma non prima di aver fatto man bassa degli episodi disponibili della nuova stagione di Grey's Anatomy, la stessa serie che guardavo da quel divano.

Alla fine sono sempre io, ma senza i sottotitoli.

domenica 10 settembre 2017

Irma la terrorista: I am disappointed big time!

La caffetteria dell'hotel, che in piena bassa stagione ha il pienone di sfollati sfuggiti a un presunto attacco climatico tra i più efferati della storia, è il luogo migliore per condurre uno studio antropologico dal titolo: "Fenomenologia della paura fondata ma anche no". Qui si ascoltano discorsi surreali mentre in sottofondo il notiziario manda in loop servizi con musiche tipo Mission Impossibile, con cronisti che camminano come 007 tra le palme mosse dal vento o sulle acque come Gesù Cristo, giornaliste modello Barbara D'Urso che ti spiegano come intrattenere i più piccoli durante l'uragano (ovvero quando sia il tuo che il loro tablet saranno scarichi e non potrete ricaricarli) e un governatore che sembra il poliziotto Hüber de "Gli svizzeri" ma con alcuni neuroni in meno.

"It's gonna be bad" pensa ad alta voce un signore su uno di quegli scooter elettrici che in Italia si usano perché è passata troppa acqua sotto i ponti e qui perché sono passati troppi hamburger sotto i denti.

"It's gonna be fine" dice una signora per rassicurare una ragazza visibilmente provata dal lungo viaggio che ha dovuto affrontare portando con sé la prole e cose assolutamente indispensabili per la sopravvivenza: 20 scatole di JELL-O, 35 confezioni Eggo My Eggo®, centinaia di litri si Dr. Pepper in bottigliette più piccole possibile, che non voglia iddio che uno inquina un poco di meno così poi la terra non s'incazza, Doritos, Tostitos, Cheetos...

"Key West is gonna be gone" sospira un tizio in pigiama stravaccato sul divano unto coi piedi sul tavolinetto dove avevo poggiato un attimo il mio muffin.

"It's gonna hit ..."
"It's gonna..."

"It's una CAGATA PAZZESCA"!!!

Ora, per carità, capitemi, capiamoci: lungi da me minimizzare i danni che questo uragano ha già fatto e farà (specialmente ai più poveri, a quelli che non possono scappare né per bisogno né per delirio) e neppure la devastazione recata dai suoi colleghi che curiosamente si chiamano spesso come i miei professori di linguistica, ma tra la realtà e la miricanata c'è di mezzo il mare! E intanto in meno di una settimana, tra allarmi, allerte, avvertimenti, #allupollupo, get out, go away, run now, run there, no wait run here... il PIL della Florida è salito più del livello dell'acqua a Miami Beach.

Spero che queste non siano le mie fatidiche "ultime parole", ma resto dell'idea che qualche credito di "Tecnologia costruttiva avanzata e poche chiacchiere I" e "Tecnologia costruttiva avanzata e poche chiacchiere II" non guasterebbero nel vostro very successful curriculum, cari amici a stelle e strisce.

lunedì 21 agosto 2017

Raccontino 6/n (Febbraio 2017)

Oltreoceano

Una tavolata apparecchiata con una tovaglia di cotone a quadri bianchi e blu, in mezzo alla strada, e pochi ospiti, più o meno graditi. Era in corso una discussione animata e senza senso. Poi ho guardato in alto, pensando che quell’atmosfera cupa potesse essere alleviata dalla possibilità di scorgere la striscia di cielo delimitata dai secondi piani delle case di via Respighi. Il cielo infatti era là, grigio e disincantato anche lui, ed una serie di nuvole disegnavano forme stellari di un grigio più chiaro. Si muovevano armonicamente e la loro visione diventava vertiginosa. Nel frattempo i suoni della conversazione divenivano sempre più attutiti, come annacquati, e le forme in cielo somigliavano sempre più a… palme? Sì, ma non le solite vecchie palme che il punteruolo aveva sterminato: no, queste erano palme esotiche, cinematografiche, di quelle che puoi trovare e poi bruciare in piazza Duomo a Milano. Più le guardavo e più mi convincevo che erano palme, molto alte, che mosse dal vento facevano capolino sopra i tetti. I loro contorni, però, non erano nitidi, era come se si ergessero sopra il pelo dell’acqua, un liquido asciutto dentro il quale per qualche ragione io e i miei commensali, la tavola, la tovaglia a quadri, e via Respighi, ci trovavamo. Una visione spiazzante, di quelle che sin da piccola mi hanno causato il magone (che in seguito avrei riconosciuto nella descrizione di “perturbante”), come le zolle di terra seccate dalla siccità, gli spilli infondo al water che non andavano via con lo sciacquone, o quella porta marrone verniciata di bianco, che urtata da un oggetto acuminato ha mostrato la sua vera natura: un’inaspettata venatura, scura. Dovevo immortalare quel cielo, o nessuno mi avrebbe creduto, allora ho preso il cellulare dalla tasca del grembiule e ho fatto un video di qualche secondo. Una prova tanto breve quanto schiacciante. Nel frattempo la sveglia sul pavimento suonava, prima dentro il sogno, e poi, progressivamente, fuori dal sogno. La mia ditata quotidiana al cellulare - indolenzita dall’ultima scorpacciata di unghie - ha posticipato di qualche minuto il secondo ti ti ti ma, ancora intrisa di sonno e di sogno, ho sollevato il cellulare nel buio cercando con l’unico occhio semi-aperto il video che avevo fatto alle palme mosse dal vento, riprese da sotto il pelo dell’acqua. Non c’era (più). Ah, già.
Solita tiritera. Caffè cubano, latte fresco e tre biscotti integrali fatti col grano di Altamura e senza olio di palma - giura la confezione. Fuori è ancora buio ma la vicina di destra s’è alzata ché deve accompagnare Ernesto a scuola alle 8. Tutto sommato sta andando meglio dell’inizio, di quando si trasferirono: a quell’età non ci sono ancora i drammi adolescenziali e il bilinguismo è un processo molto più indolore di quanto lo sia stato per sua madre. O per me. I vicini di sinistra hanno già mandato i due cani che vivono con loro in cinquanta metri quadri a fare la pipì un paio di volte. La giornata promette bene, si prevedono 26 gradi di massima e 21 di minima.
Nel mio consueto percorso verso il lavoro, coi capelli ancora bagnati che profumano di mela verde, che il vento non asciugherà a causa dell’umidità, in prossimità del lago, mi rendo conto che forse via Respighi era proprio laggiù, in fondo allo specchio d’acqua, insieme ai pesci che saltano, a quelli di cui gli ibis sono ghiotti e a strane specie di rettili e anfibi che solo qui… Mi fermo un attimo, guardo in alto e vedo le stesse palme che vedevo nel sogno, stavolta disposte in fila a delimitare la riva e mi chiedo che strani giri facciano le fotografie scattate dal mio cervello. Beh, sempre meglio di quando trascorro notti intere a sognare di salvare con nome file .docx e .pdf.
Mentre cammino, scrivo a mia sorella un riassunto dettagliato del mio sogno e non manco di aggiungere particolari sui commensali, che potrebbero essere di suo interesse. Faccio un sacco di errori perché il sole che batte sullo schermo mi impedisce di vederlo. Lei mi manda l’emoticon che ride con le lacrime. Poi mi scrive che ha finito di pranzare, da sola, e mi manda quella col bacetto a forma di cuore: aggiorniamoci - scrive. Mando a mio papà un messaggio vocale per avvisare che torno tardi dal lavoro, quando in Italia saranno già le 5 del mattino, quindi, niente, ci sentiamo domani. Che tenero: ha imparato a fare il pollice in su, finalmente. Whatsapp per un ultra-settantenne dev’essere un’altra forma di bilinguismo tardo.
I miei studenti mi aspettano annoiati, sollevano appena lo sguardo dai loro dispositivi elettronici per rispondere al mio saluto esaltato. Tiro giù il telo del proiettore e ha inizio lo show. Molti di loro mi conoscono da tempo e apprezzano il mio entusiasmo, ma quelli nuovi pensano che sicuramente tiro cocaina prima di ogni lezione e non riescono a togliersi quello sguardo interrogativo dal volto. Devo tenere alto il morale delle truppe, ma non sono né Marilyn Monroe, né Mary Poppins, né tanto meno Yuja Wang. E non è una cosa semplice quando hai davanti dei ventenni con la maturità di dodicenni e la stanchezza esistenziale di ottantenni.
Tutto chiaro sul periodo ipotetico, Chan? No, Dorino, non puoi leggere sempre tu. Un altro volontario? Il narratore e l’autore non sono la stessa entità, Nikolaus. Quando parli in spagnolo ti devi sforzare di far vibrare quella “r”, Allison. La lezione è finita, andate in pace.
Corro alla riunione. Sudo, naturalmente, e penso che se sto sudando il giorno di san Valentino il riscaldamento globale - checché (se) ne dica - esiste e come. Ormai mi sono abituata a tutto, anche a quest’estate perenne, e mentre progrediamo nell’ordine del giorno che poteva essere interamente affrontato con una email ben assestata, penso che però c’è una cosa a cui non ci si può abituare: il reparto orto-frutta del supermercato.
No, non parlo dei carciofi a 4.65 l’uno, quello si risolve non comprandoli e inserendoli nella wish list di cose da ingurgitare in un mese quando sei a casa. Mi riferisco piuttosto al getto d’acqua continuo sugli ortaggi. Ho chiesto: ma perché? Mi hanno detto che è per mantenere gli ortaggi fresh. Certo, è importante che l’aspetto di questo preziosissimo carciofo sia fresco qui, e una volta nel mio frigo marcisca in due giorni. Ovviamente, dato il prezzo, non si potrà solamente procedere al suo lancio nella pattumiera. Come minimo ci vorrà un vero funerale.
E se non ci sono varie ed eventuali, la riunione può dirsi conclusa. Ci salutiamo in fretta, con alcuni in inglese, con altri in spagnolo, certi fanno i fighi in francese, o i piacioni in un italiano improbabile. Ma la parte importante è che tutti hanno (abbiamo) fretta. Sempre.
Mentre vado a ritirare in biblioteca quei quindici libri che devo leggere questa settimana, vedo che nel frattempo sono arrivati video demenziali in quel gruppo che sembra un campione delle ragioni per cui ce ne siamo prima scappati dalla Sicilia e poi andati dall’Italia. C’è di tutto: gente che preferisce lavorare a nero per non pagare tasse e prendere la disoccupazione, gente che fa figli senza avere un lavoro perché tanto ci pensano i nonni, gente che lavora un paio d’ore al giorno se va bene ed ha bisogno di una vacanza, barzellette razziste, battutone omofobe, da sbellicarsi proprio, inutili buongiorni, non richieste buonenotti, cuori e rutti.
Alle 9 di sera rifaccio il percorso al contrario, come ogni giorno. La sua bici blu è legata alla rastrelliera fuori dalla scuola di musica: ne avrà ancora per almeno un’ora. Cammino per 13 minuti nella pace che solo un quartiere residenziale può garantire e mi perdo nei miei pensieri.
In questo lustro ne sono accadute di cose, molte più di quante potessi immaginarne dal mio divano italiano dove, immersa nella noia e nella paranoia mitragliavo di curriculum il WWW. Poi c’è stata la ‘merica, con tutti i suoi paradossi: contraddizioni grandi come grattacieli, sterminate come il deserto dell’Arizona, inspiegabili come le dinamiche che hanno portato al risultato delle ultime elezioni. Quando ho messo piede negli USA ero intrisa di occidentalismo, ed è buffo che l’abbia scoperto proprio nel west più west. Apprezzavo l’Europa e la sua storia, ma dovevo venire fin qui per capire bene i suoi errori, specialmente di valutazione e autocompiacimento, i quali, in piccolo, ho perpetrato anch’io nella mia quotidianità. Certo, l’America ha un sacco di difetti, belli grossi, ma è particolarmente illuminante che proprio qui io abbia avuto la possibilità di vedere quanti di essi erano già in me, inconsapevole snob dalla prospettiva privilegiata.
Una volta a casa, mi metto a preparare il pesce con l’alieoli: l’uno gli è utile per ricordarsi tutte le note del primo concerto di Brahms e l’altro gli abbassa la pressione – razionalizzo. Mentre pelo l’aglio metto Le Iene sul tablet e c’è proprio un servizio su Trump. La vicina di destra urla in cubano stretto a suo figlio di non trascorrere tutto quel tempo sotto la doccia (manco fosse un carciofo) e lui le risponde in inglese, come un vero gringo. Si sente tutto: i muri sono sottili e in qualche modo favoriscono la proliferazione degli scarafaggi. Miami è infatti la terza città degli Stati Uniti a vantare il più alto numero di queste simpatiche bestiole.
Miami: cool! Quando in Italia dico che ci vivo ho sempre a che fare con risposte standard. Ci sono quelli che ci sono stati in viaggio di nozze e “avrebbero voluto rimanerci per sempre”. Poi ci sono quelli che non ci sono mai stati ma sanno tutto di lei, e vorrebbero tanto andarci e rimanerci per sempre. Poi ci sono i propositivi: l’Italia dovrebbe essere come Miami (pur non avendo la più pallida idea di come sia Miami in realtà)! Ed infine ci sono i disfattisti/complottisti: che schifo l’America e TUTTI gli americani /non ci andrei mai/l’America è qua (e parte il sottofondo di mandolini, mentre in lontananza, sporta su un faraglione, la mamma ti urla che la cena è pronta e ti arriva in faccia una brezza che sa di Mediterraneo e pizza Margherita).
Per me Miami è un’altra cosa. È varietà: di gente, di idee, di genere, di razza. È pappagalli variopinti che volano liberi nel cielo. È lucertole assurde. È PhD, pagine, e nuovi orizzonti del sapere. È sacrificio e lavoro. È possibilità. È impossibilità. È casa e famiglia. È lontana dalla casa e dalla famiglia. È molte cose di cui lamentarsi. È felicità a momenti. È fortuna di esserci finiti. È zero carciofi. È anche Cuba. Non è mare né vacanza. È interminabili videochiamate. È aria condizionata a palla. È una parentesi tra noi e un futuro incerto. È un apostrofo in neretto tra le parole “c” e “ho sonno”.

Così, punto la sveglia del telefonino alle 5, lo poggio a terra e già che ci sono decido di restare su questo fianco, come estremo atto di altruismo. Buona notte e sogni alieoli.