martedì 28 febbraio 2012

Raccontino 3/n (Agosto 2007)

Ceramitaro

Alnord si studia, si lavora, si parla sottovoce sui bus urbani che arrivano puntualissimi, si fa tutto di fretta e si cena presto!
Al Ceramitaro si arrostisce sul carbone la salsiccia con pepe rosso, pepe nero, semi di finocchio e flemma, alle dieci di sera, tra gli ulivi e i limoni piantati sul terreno argilloso che un tempo serviva a fare i ceramiti, col pesco che perde un ramo l’anno, il pero carico e stanco, i ranati e i mulun’i sciauru.
Ricordi: urgono situazioni, musiche, odori che li suscitino.
Siamo tornati qua molte volte dopo gli “anni d’oro”, ma i miei flashback non erano mai stati vivi come oggi: a nulla era servito il tavolo in pietra che ha subìto passivamente tutti i nostri rumorosi convivi, e l’anno scorso anche l’urto del cofano dell’auto di mio padre; a nulla è servito il forno a legna, la stradina scoscesa, i bossoli colorati sparati da praticanti di uno sport ormai inutilmente stupido, l’agrumeto.
Quando si cercano, i ricordi, non si trovano mai, ma poco fa sono entrata in bagno, dove da tempo non entravo, e mi si è aperto un mondo di schizzi schiamazzi sghignazzi: dalla finestra si può toccare l’acqua della zena in cui mi sono sguazzata per anni, “estati d’oro”, appunto, quando l’età media era più bassa, il tasso di gioventù più alto, la pace estesa, l’Italia aveva da poco vinto i mondiali in Spagna.
Mi sono ricordata di mio nonno e suo fratello che passavano le notti a dormire sotto gli alberi: due lune luccicanti sotto la vera luna; di mia nonna che friggeva tutto; di mia sorella e Mery (nostra cugina, adolescente anche lei, che veniva qui, on holiday, dall’America) che ascoltavano gli Wham; di me unica bambina in quella casa “nuova”, costruita dopo il terremoto del ‘75, quando tra un pedi e l’altro avevano allestito una tendopoli, e al tramonto accendevano il lume.
Mi sono ricordata che mi piaceva un sacco stare qui, ascoltare i discorsi dei grandi, mangiare la pasta della pizza cruda; quando gli alberi mi sembravano alti e la “piscina” (questo era per me) profonda anche se c’era solo un metro d’acqua.
Anche qui è cambiato tutto, e il tempo non sembra affatto essersi fermato, neanche in aperta campagna, me ne rendo conto ora che sono seduta al tavolo di pietra con mia nonna, vestita di nero perché nonno è morto tre anni fa, e non racconta più di Pantelleria, né di mambrucchi tripolitani. Neanche il tavolo è più lo stesso, perché dopo la mia “carezza” è stato rifatto quasi del tutto, il grande albero di fico che lo sovrastava e su cui amavo arrampicarmi è stato abbattuto per costruire al suo posto la tettoia in poliuretano che ora ci tiene belli freschi, all’ombra e senza i continui splash dei fichi che cadono fatti. Da un paio d’anni hanno allacciato anche l’energia elettrica e quindi al tramonto non inizia più a sentirsi quel ronzio lontano del motore degli anni ’80, mentre il lume degli anni ’70 ha un posto di rilievo nella vetrinetta del soggiorno, quella delle cose “antiche”. Non ci sono più farfalle, saranno i diserbanti; una cosa è rimasta la stessa: le mosche che ti ronzano intorno e si posano sulla pelle, recidive, provocando, stronze, atti autolesionistici!
La Fiat Panda “young” qui di fianco è molto invecchiata, e se parte me ne torno a casa, devo ancora preparare la valigia, che non è di cartone ma è per ilnord: domani si “risale”, non con la freccia del sud, ma con un aereo low cost, sicuramente in ritardo.
Le vacanze sono finite…
I viaggi non finiscono mai, come gli esami, come i ricordi, come le mosche!

lunedì 27 febbraio 2012

Su Mignolo blu questo non poteva mancare...

domenica 26 febbraio 2012

Raccontino 2/n (Maggio 2010)


Una virtù essenziale

Erano le cinque.
Rientrata in casa col fiatone Amelia si chiuse dentro col chiavistello: era sola.
Senza neanche togliersi la giacca corse in camera, per cercare qualcosa.
Sicuramente, quel qualcosa Filippo glielo aveva lasciato, prima di partire, come sempre…
Ogni volta era una caccia al tesoro, ormai svelata.
Sul cuscino un foglio, una nuova traduzione:

«- Io e lui, sempre noi due quando intorno tutto tace -
Grazia, ottantatre anni, vedova da tre, a ferragosto ancora più sola.
Lucio, venti anni, pianista da tredici, a ferragosto contento della casa vuota e della strada deserta: sono tutti fuori città e nessuno si lamenterà se per dieci ore Chopin e Beethoven non daranno tregua al silenzio.
Grazia è seduta davanti la finestra coi piedi gonfi sullo sgabello, accanto a un tavolinetto su cui sono disposti ordinatamente la foto in bianco e nero di Francesco in divisa, le medicine per la circolazione, quelle per l’ipertensione e un pacco di assorbenti per la sua incontinenza. I suoi tre figli non potevano portare in vacanza un bagaglio tanto voluminoso: cento chili di generosità e lentezza.
Lucio deve studiare per l’esame più importante della sua vita e rinuncerà anche a questo Ferragosto per “bruciare il programma” entro la fine dell’estate.
Grazia brucia di caldo, ma non apre la porta per paura di qualcuno che potrebbe approfittarsi di vecchiaia e solitudine per rubare quel che resta della pensione dopo le paghette date ai nipoti. Grazia non conosce la musica classica, non ha idea di chi abbia scritto le note che riempiono la Via Leopardi, ma ascolta e guarda attraverso i vetri, il suo confine, la coda del piano e le mani di Lucio che ripetono passaggi e girano pagine su pagine».

E buon ferragosto anche a chi non va in vacanza! 

pensò Amelia.
In calce qualche parola di profondissimo affetto… e profondissima quiete una volta nel letto gelido: dietro chi non parla non c’è chi non ha niente da dire, ma senza sofferenza non si può scrivere che stupidaggini, però si può guardare il soffitto e vederci il cielo blu che senza stelle tace e ha come unico occhio assonnato una falce di luna calante. 

Quale confine?
Quale storia, parole?
Quali pietre, Patria?
 
si chiese.
Il confine è quello oltre il quale bisogna spingersi, a fatica, per non lamentarsi.
Il confine che una volta superato ti mostra il rovescio della medaglia: meraviglia!
Una vita trascorsa a errare pensando di eccellere, piangere per non ridere: esagerare.
Dire che il bianco è nero, che i meriti sono colpe, che “nessuno è perfetto, tranne me”… eppure, vari rovesci per questa medaglia: nonostante la “lapidarietà” di certe parole, tutti quelli che ti girano intorno, e girano e girano, nonostante tu dica di esser sola, hanno imparato da te una virtù essenziale: la pazienza. E Giobbe non è nessuno messo a confronto con l’uomo che da cinquanta lunghissimi, temerari e strani anni ti ama.

Perché?

mormorò.
Che controtendenza chiedersi il perché dell’amore dei propri genitori, chiedersi perché quell’amore non è finito nottetempo, perché è iniziato, addirittura.
Quale storia?
La storia di una vita di stenti, condotta nella quasi ignoranza, nell’oppressione dell’occhio opprimente della gente. Tutta, non solo quella brutta. Per poi lasciare pietre, scolpite senza un vero perché, con facce, bestie, e moltiplicazioni di sé che le ruspe hanno buttato giù.
Storie di reclusioni laddove la libertà, non solo espressiva, doveva essere l’incontrovertibile.
Storie di preponderanza mentale di una mente tutto sommato debole.
E allora a che scopo odiare? Le pietre nel cuore si spostano, si urinano come la rena dei reni.
Sono le otto e come ogni sera squilla il telefono: è sua madre (quando parli del diavolo…) che piange perché le vicine vacanze di Natale saranno troppo brevi. Ma quando si è felici? Realmente?

Quando?

Il libro nella borsa aspetta di essere tirato fuori, letto, capito.

Sarei felice di tornare indietro, sarei felice di fare un salto in avanti, sarei sensata se stessi zitta, muta in testa e senza pensiero alcuno.
Rimuginare per rimuginare equivale al predicare bene e razzolare male, mentire sapendo di mentire. Non sono più io o me ne voglio convincere, mi voglio convincere di essere stata una persona migliore mentre ero tale e quale, ma solo meno sincera con me stessa.

Parole come pietre… zavorre!
Figure miste e condensate come nei sogni.
Sia alzò dal letto basso, andò in cucina a riempirsi il bicchiere di vino e aprì il frigo dal quale le arrivò in faccia una zaffata dell’odore del camembert che aveva portato da Parigi, non l’avessero mai fatto!

«Vino vinello, l’odore è bello,
il colore è frizzante e le sinestesie sono tante!
Merlot, senti un po’, annusa però.
Ascolta il gusto mentre nuoti nel mosto!»

Amalia lesse sul post it, sull’anta del frigo, la traduzione della filastrocca che aveva fatto vincere a Filippo quel concorso, quell’occasione, nuova, che, nuovamente, lo aveva allontanato. Fuori dal terzo piano la strada brulicava di gente impazzita che combatte la crisi a colpi secchi di shopping, Amelia l’aveva guardata senza vederla rincasando, e la vide ora, che si sporse a chiudere le lamelle, e vide gli artisti di strada che strimpellavano motivetti natalizi con strumenti di fortuna passare tra quella gente che aveva tutte e due le mani occupate dai pacchetti per prendere un euro dalla tasca.
Scrivere per scrivere, per riempire qualche pagina, può anche essere una scusa per non fare ciò che devi, ciò per cui ti pagano.

Ci vuole sofferenza per entrare nel tunnel, ci vuole sofferenza per uscirne, ma non ne sono sicura… 

Soliti pensieri della buona notte, che si fanno più sonori nella rara solitudine. Anche quando hai cambiato le lenzuola, il taglio dei capelli e i colori per non morire lentamente, “nerudianamente”.
Nudamente, bisogna ammettere di aver perso l’obbiettivo e trovarne uno nuovo, nuovamente.
Si svegliò sperando di essere migliore del giorno precedente, ma si ritrovò nello stesso letto la sera, con un pugno di nuove scuse, un pizzico di buoni propositi e un mazzo di sensi di colpa.
L’indomani.
L’altro ancora.
Basta! Si parte!

«Arrivo a Madrid Barajas domani all’una e dieci, mi riconoscerai dalla valigia di cartone piena dei nostri dieci anni insieme! P. S. Ti porto gli spaghetti: ho imbarcato l’Italia come “bagaglio speciale”, solo così potrò attraversare il confine».

Tripla mandata, tre lucchetti alla bici, tre libri: quello per la tesi, Terra matta, e il vecchio manuale di lingua spagnola; tre mesi di affitto anticipati, tre esami alla laurea, tre parole di commiato, non una di più.
Mentre aspettava di imbarcarsi scrisse un sms:

«”Solamente la ardiente paciencia hará que conquistemos una espléndida felicidad”. Non imparta se non capisci lo spagnolo. Grazie mamma, ci vediamo il prossimo Natale!»

Lo scrisse a se stessa, come promemoria, la destinataria non avrebbe saputo leggerlo.

venerdì 24 febbraio 2012

Raccontino 1/n (Marzo 2007)

«Io non so come facevo a sopportarlo, col suo naso pieno di peli, le orecchie piene di peli, e l’alito, Dio solo sa cos’era il suo alito. E pensare che una volta mi sembrava profumo di viole misto a lamponi; e i peli però? Cosa mi sembravano?» 
Così doveva iniziare il racconto, con quest’incipit.
Sofia si ficcò in borsa il foglietto e salì sul sette. Trovato un posto, in fondo, controllò i telefonini (uno per ogni gestore) che aveva tenuto silenziosi durante il dibattito, e trovò cinque chiamate senza risposta: il raro squillo di Elia, i tre insistenti squilli di Mariella e la presunta chiamata di Marta, rispose a tutti e la Tim risquillò: -Dimmi Marta-. -Ciao Sofia, ti disturbo?-. -No, sono in autobus-. -È che volevo dirti che non ce la faccio più, va tutto storto, oggi ho fatto lo scritto di Matematica e sicuramente non è andato, e poi quello stronzo di Ernesto non mi scopa più! Ah ma io glielo dico, che se continua a mandarmi in bianco si becca le corna! All’inizio non era così, certo non è mai stato un porco, ma sono passati venti giorni dall’ultima volta, e a trent’anni non è possibile ridursi così…- e man mano che il sette da Bologna nord, si avvicinava a Bologna sud, il monologo continuava sullo stesso tono, con qualche breve intervento di Sofia che ormai sapeva a memoria tanto la fabula quanto l’intreccio, conosceva perfettamente il contenuto di ogni singolo sms, o biglietto che Marta aveva ricevuto da Ernesto negli ultimi due anni! Arrivata a casa Sofia spense i telefoni e svuotò la borsa sul tavolo. Rilesse il foglietto: «Io non so come facevo a sopportarlo, col suo naso pieno di peli, le orecchie piene di peli, e l’alito, Dio solo sa cos’era il suo alito. E pensare che una volta mi sembrava profumo di viole misto a lamponi; e il peli però? Cosa mi sembravano?» e pensò che poteva scrivere la storia di Marta, ma poi si ricordò che Ernesto non aveva i peli nelle orecchie e decise di andare a letto.
La mattina seguente, bevendo il caffè, Sofia pensava che quello era un incipit che poteva condurre sia al comico che al tragico, che si poteva prestare a tantissime storie, che qualcosa le sarebbe venuto in mente con la sua laurea in Lettere, e che cavolo! Si abbandonò a sogni di gloria, fece risalire la sua vocazione scrittoria alla notte dei tempi, decise che quella era la sua occasione per diventare l’eccezione alla regola: la scrittrice che seppe scrivere! Allora s’impose di non parlare d’amore, e si mise in attesa dell’ispirazione, ringraziando, in cuor suo, la sorella, che le aveva indicato quell’iniziativa.
Dopo qualche giorno, mentre badava a Riccardino, si mise a pensare a qualcuno che avesse lunghi peli nel naso e nelle orecchie, e le vennero in mente solo due persone: il professore di Filologia Italiana che entrava in aula con quel suo stuolo di discepoli che gli si sedevano intorno mentre lui prendeva posto sul trono, e il vecchio nonno, morto l’anno prima, di cancro. Per entrambe le storie ci sarebbe stato poco da ridere: abbozzando su un foglio quella di cui il docente poteva essere il protagonista annoiò se stessa, e per quanto riguarda il nonno… poteva risultare interessante un racconto sui nonni. Spense la tv per non far svegliare il bimbo, che nel frattempo s’era addormentato, e iniziò a scrivere:
«È ormai tempo in cui anche le ginestre sono estirpate.
Non fiori nel deserto, ma uomini e donne che hanno vissuto le due guerre sono ormai giunti alla fine dei loro anni, privandoci di racconti di vita che non si potranno più ripetere, più raccontare. Esistenze difficili vissute tra stenti e gioie d’altri tempi, ricordi in bianco e nero di campi dorati, di giorni in cui ci s’inventava lavori nuovi per tirare avanti, comprare un vestito buono che non fosse per tutta la vita come il matrimonio, che non fosse quello del matrimonio; quando il lavoro era sacro, e anche il mulo che dormiva con gli uomini; quand’erano altri i “concetti” di festa, di fame, di amore, di lavoro, di pane, di sacrificio.
Questa è la generazione dei nostri nonni che si stanno tutti spegnendo contenti di aver vissuto una vita tanto lunga e bella (altro “concetto” diverso dal nostro) lasciando un vuoto, non come il vuoto che lascia ognuno morendo, ma un vuoto generazionale incolmabile, perché non potendoci più essere condizioni di vita come quelle, non ci saranno più vite come quelle, né “concetti” come quelli, e neanche i loro figli sapranno assomigliare ai nonni che loro sono stati, così i nostri figli non saranno fortunati come lo siamo stati noi».
-Bello!- Si disse rileggendo, ma poi aggiunse: -si ma che c’entra coi peli e l’alito pesante?-
Certo che a criticare siamo tutti bravi! Le scrittrici non sanno scrivere altro che romanzetti rosa, e pure quando il discorso si fa serio, loro lì a spalmare miele anche sui morti in putrefazione. Questo era il pensiero di Sofia, e man mano che la sua biblioteca si ampliava, questo pensiero si faceva più forte. -Sì, ma te cos’hai scritto fin’ora, genio?-  
Il suo flusso di pensieri fu interrotto dall’arrivo della mamma di Riccardino che la pagò e la congedò con la sua solita vocina.
Tornando a casa a piedi si fermò davanti a una vetrina d’antiquariato, per vedere se c’erano quei dischi per Elia, ma la sua attenzione fu attirata da un paio di piccoli orecchini, e le venne in mente quella storia, che le aveva raccontato quella signora alla stazione, e che lei tornata a casa aveva appuntato su un blocchetto: «[…] Ma non c'erano solo i soldati americani che ballavano il boughi-boughi nel nostro casolare, c'era anche mio nipote che partiva per la Russia per non farne ritorno neanche in ossa. Aveva 21 anni e una fidanzatina che l'altro giorno, m'ha chiamata dicendomi che stava male, chiedendo se potevo andarci mentre suo marito aveva il turno all'ospedale, allora io, nel tragitto tra il cimitero e casa sua, pensavo che volesse chiedermi se avevo firmato quelle carte per il rientro in patria di quel che resta. Invece entrai e subito mi venne incontro con una scatolina: un paio di orecchini con due rondinelle: una reggeva col becco l'asso di cuori, l'altra il messaggio: "ritornerò". -Ma perché li dai a me - dissi comprendendo immediatamente che si trattava di un dono di lui, -Ada, Andrea è stato il mio primo amore!-
E giù il sipario, e giù lacrimoni.
La prossima volta che torna il tizio dell'agriturismo a chiedermi il casolare, gli sguinzaglio dietro i cani!»
È tutto chiaro: lo scrittore onnisciente ha fatto il suo tempo, come la terza persona singolare e il passato remoto, questo pensò Sofia e l’unica cosa che le venne in mente di scrivere, prima dello scadere del tredicesimo giorno fu un incipit: «Per anni ho inseguito l’ispirazione senza mai riuscire a prenderla… e meno male: se mi fossi imposta di portare a termine tutti gli incipit, o mettere a posto tutte le idee, chissà che porcherie ne sarebbero uscite. “Benedetta noia”!
Avrei potuto scrivere di una strana madre, di una compagna di classe cleptomane, di un musicista mezzo matto (cruci - duci), di una coinquilina lesbica, della Sicilia, dei siciliani…
La lunghezza mi frega, e con lei la troppa serietà e gli argomenti amorosi, quindi ora rifuggo da tutto ciò. Per non cadere nel patetico preferisco il frammento, e anche se Melissa è “meno peggio” di certa melassa, preferisco non scrivere d’amore: giacché non siamo più nell’Ottocento guanti e panciotto è meglio indossarli solo a carnevale (come il corsetto di pelle nera e il frustino). E poi a chi devo piacere? Alla “giuria di qualità”? O al lettore spassionato? Preferisco non scrivere!».  
La dodicesima notte, nell’e-mail senza oggetto indirizzata al concorso letterario scrisse: «Io non so come facevo a sopportarlo, col suo naso pieno di peli, le orecchie piene di peli, e l’alito, Dio solo sa cos’era il suo alito. E pensare che una volta mi sembrava profumo di viole misto a lamponi; e il peli però? Cosa mi sembravano?» e aggiunse «-La fantasia è un posto dove ci piove dentro-, disse colui che con l’arte dell’incipit costruì un libro intero, ma a Bologna, anche se piove, ci sono i portici!»

“Se una dodicesima notte d’inverno un non scrittore” in Scrivi con lo scrittore Terza edizione 2006-2007. A cura di E. BIANCIARDI. Giraldi Editore.

mercoledì 22 febbraio 2012

Acidoacida

Ieri sul solito treno, col solito ritardo, c’erano le solite persone che vedono entrare una mandria di gente e non ridimensionano lo spazio che occupano indebitamente con le loro stupide cianfrusaglie finché tu non chiedi loro: - È libero? E loro, non dandosi nemmeno la pena di rispondere, senza guardarti sbuffano e spostano con movimenti risoluti la maxi-bag, il trench, la shopper… che manco Enzo Miccio!
Ho preso posto vicino a due cuccioli di “sgallettata” che hanno continuato a parlare dello scritto, dell’orale, del "prof che ti sega" all’esame (che palle!), dell’aperitivo (che cool!), dell’amico che s’è messo con una tipa di ventinove anni (quale orrore!) che ha rimorchiato all’assemblea condominiale (che squallido!)…
Poi finalmente si sono zittite: una ha preso a controllarsi il french, l’altra a staccarsi le doppie punte dai capelli.
Si tratta degli stessi esemplari che camminano sul ghiaccio coi tacchi a spillo: lente e ingombranti come pachidermi, e tu che hai fretta e hai messo le scarpe da tennis - hai dimenticato la penna, hai sbagliato pantaloni - per non perdere il ritmo, non puoi sorpassarle, perché hanno l’apertura alare da Vuitton a sinistra e iPhone a destra.

Mi sento scossa,
agitata a,
agitata a,
un po' nervosa a.
uu uu
Acida come,
di più non si può,
di più non si può,
come un acido.
uu uu
[…]
Acida dentro,
acida con chi,
acida con chi,
acido non è.
uu uu
[…]
Acido acida
Acido acida
Acido acida
Acido acida
Acido acida
Acido acida
Acido acida
Acido
uu uu uuu
uu uu uuuuuu

Arrivata a casa, come dice il professore di latino, ho pensato: - Finalmente domi!
Ma in tv c’era Scusa ma ti voglio sposare, in prima serata, intervallato dalla pubblicità del SuperEnalotto (Lasciatemi sognare, con la schedina in mano…) e mi sono chiesta: - Sono un italiano? Un italiano vero?
Mio Dio!
Fortuna che c’è Skype che aiuta a noctes vigilare serenas per poi addormentarsi con le cuffie!





 

P.S. Gioca responsabilmente...
... secondo me dovreste andarci piano anche con l'acido!

lunedì 20 febbraio 2012

Con le orecchie dell'amore

Il mio supereroe ha super poteri:
è impavido e valoroso,
fa pensieri stupendi,
le sue dita sono d’acciaio,
il suo cuore di panna.

Quando arriva al ventesimo minuto della 111, Beethoven gli poggia una mano sulla spalla.

Il mio supereroe ha gli occhi preziosi e il suo animo è forte.

Il mio supereroe mi protegge, mi riscalda, mi salva.

Il mio supereroe vola sull’oceano verso una nuova avventura
perché a lui piacciono le cose difficili.

Il mio supereroe ha l’abbraccio più bello del mondo
e il suo suono toccherà cuori nuovi.

Il mio supereroe vola via lontano,
ma tornerà a prendermi...

sabato 18 febbraio 2012

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

L’orgoglio disse guarda non mi sbaglio 
non ho torto e non mi pento.
La rabbia gli rispose tu sei un pazzo
ma stai attento che ti ammazzo.
La tristezza stava in un angolo
vestita del suo pianto.
L’astuzia non diceva quasi niente
ascoltava solamente.
L’amore diede fiato alla sua voce
e disse solamente...

Pace, cercare solamente un po' di pace
per chi non parla e per chi troppo dice
cosi che ogni momento sia felice
sapessi amore mio come mi piace
quando mi dici ti amo sottovoce
perché la vita sai va via veloce
e viverla con te mi fa felice.
Disegnino scemo 1/n (Febbraio 2009)

La noia fece posto all’abbandono
salutò se ne andò via.
E la paura stava lì a tremare
e disse non è colpa mia.
La gioia saltellando
litigava contro la malinconia.
Poi venne l’odio e disse a tutti quanti
ora andatevene via.
L’amore diede fiato alla sua voce
e disse solamente...

Pace, cercare solamente un po' di pace
per chi non parla e per chi troppo dice
cosi che ogni momento sia felice
sapessi amore mio come mi piace
quando mi dici ti amo sottovoce
perché la vita sai va via veloce
e viverla con te mi fa felice.
Pace, sapessi amore mio come mi piace
quando mi dici ti amo sottovoce
perché la vita sai con te è felice.

sabato 11 febbraio 2012

Avere paura di tutto come mortali e voglia di tutto come immortali

Avere l'umore come il grafico dello Spread btp bund - picchi e gorghi infernali - e non sapere perché è sicuramente una perdita di tempo.

Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus.

Il divano è pieno di libri, il tavolo di fogli, il pc di file, il lavandino di piatti. I "pizzini" si moltiplicano come i pensieri nella mia povera testolina, ma si sa: meno sassi ci sono nella lattina più chiasso fanno ad ogni movimento... e intanto fuori nevica sull’innevato!

Nevica sul bianco,
dormo su un fianco,
rifletto su un pensiero stanco:
il pane a chi non ha i denti,
il plauso ai deficienti,
i tetti su teste ignobili,
la prole agli inaffidabili.
"Que toda la vida es sueño,
y los sueños, sueños son".

Apro gli occhi,
ancora fiocchi,
con essi ex incubi dondolano
e svaniscono,
ma dubbi nuovi nascono
e induriscono,
contundenti impauriscono,
pietrificati pietrificano. 
"Nieva" perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.
  
Forse Seneca mi avrebbe biasimata - come anch’io mi biasimo - perché non so se è peggio passare le giornate a pensare o a agire: non so se identificarmi con quelli che Seneca definisce "affaccendati" o con quelli che io chiamo "sfacinnati".

Omnium quidem occupatorum condicio misera est, eorum tamen miserrima, qui ne suis quidem laborant occupationibus, ad alienum dormiunt somnum, ad alienum ambulant gradum, amare et odisse, res omnium liberrimas, iubentur. Hi si volent scire quam brevis ipsorum vita sit, cogitent ex quota parte sua sit.

Tra il fuscello e il fiume in piena io sono sicuramente il fuscello, tra il gatto e il topo il topo, tra il caffè e il cioccolato il cioccolatino dopo il caffè, tra il bianco e il nero il grigio, tra il carpe e il diem io scelgo sempre il post, e anche tra il romanzo e la poesia scelgo il post...
tra :) e :( io sono :/
Alla "triste meraviglia" preferisco rassicuranti "cocci aguzzi di bottiglia"!