Oltreoceano
Una tavolata apparecchiata
con una tovaglia di cotone a quadri bianchi e blu, in mezzo alla strada, e
pochi ospiti, più o meno graditi. Era in corso una discussione animata e senza
senso. Poi ho guardato in alto, pensando che quell’atmosfera cupa potesse
essere alleviata dalla possibilità di scorgere la striscia di cielo delimitata
dai secondi piani delle case di via Respighi. Il cielo infatti era là, grigio e
disincantato anche lui, ed una serie di nuvole disegnavano forme stellari di un
grigio più chiaro. Si muovevano armonicamente e la loro visione diventava vertiginosa.
Nel frattempo i suoni della conversazione divenivano sempre più attutiti, come
annacquati, e le forme in cielo somigliavano sempre più a… palme? Sì, ma non le
solite vecchie palme che il punteruolo aveva sterminato: no, queste erano palme
esotiche, cinematografiche, di quelle che puoi trovare e poi bruciare in piazza
Duomo a Milano. Più le guardavo e più mi convincevo che erano palme, molto
alte, che mosse dal vento facevano capolino sopra i tetti. I loro contorni,
però, non erano nitidi, era come se si ergessero sopra il pelo dell’acqua, un
liquido asciutto dentro il quale per qualche ragione io e i miei commensali, la
tavola, la tovaglia a quadri, e via Respighi, ci trovavamo. Una visione
spiazzante, di quelle che sin da piccola mi hanno causato il magone (che in
seguito avrei riconosciuto nella descrizione di “perturbante”), come le zolle
di terra seccate dalla siccità, gli spilli infondo al water che non andavano
via con lo sciacquone, o quella porta marrone verniciata di bianco, che urtata
da un oggetto acuminato ha mostrato la sua vera natura: un’inaspettata
venatura, scura. Dovevo immortalare quel cielo, o nessuno mi avrebbe creduto,
allora ho preso il cellulare dalla tasca del grembiule e ho fatto un video di
qualche secondo. Una prova tanto breve quanto schiacciante. Nel frattempo la
sveglia sul pavimento suonava, prima dentro il sogno, e poi, progressivamente,
fuori dal sogno. La mia ditata quotidiana al cellulare - indolenzita
dall’ultima scorpacciata di unghie - ha posticipato di qualche minuto il
secondo ti ti ti ma, ancora intrisa di sonno e di sogno, ho sollevato il
cellulare nel buio cercando con l’unico occhio semi-aperto il video che avevo
fatto alle palme mosse dal vento, riprese da sotto il pelo dell’acqua. Non
c’era (più). Ah, già.
Solita
tiritera. Caffè cubano, latte fresco e tre biscotti integrali fatti col grano
di Altamura e senza olio di palma - giura la confezione. Fuori è ancora buio ma
la vicina di destra s’è alzata ché deve accompagnare Ernesto a scuola alle 8.
Tutto sommato sta andando meglio dell’inizio, di quando si trasferirono: a
quell’età non ci sono ancora i drammi adolescenziali e il bilinguismo è un
processo molto più indolore di quanto lo sia stato per sua madre. O per me. I
vicini di sinistra hanno già mandato i due cani che vivono con loro in
cinquanta metri quadri a fare la pipì un paio di volte. La giornata promette
bene, si prevedono 26 gradi di massima e 21 di minima.
Nel
mio consueto percorso verso il lavoro, coi capelli ancora bagnati che profumano
di mela verde, che il vento non asciugherà a causa dell’umidità, in prossimità
del lago, mi rendo conto che forse via Respighi era proprio laggiù, in fondo
allo specchio d’acqua, insieme ai pesci che saltano, a quelli di cui gli ibis sono
ghiotti e a strane specie di rettili e anfibi che solo qui… Mi fermo un attimo,
guardo in alto e vedo le stesse palme che vedevo nel sogno, stavolta disposte
in fila a delimitare la riva e mi chiedo che strani giri facciano le fotografie
scattate dal mio cervello. Beh, sempre meglio di quando trascorro notti intere
a sognare di salvare con nome file .docx e .pdf.
Mentre
cammino, scrivo a mia sorella un riassunto dettagliato del mio sogno e non
manco di aggiungere particolari sui commensali, che potrebbero essere di suo
interesse. Faccio un sacco di errori perché il sole che batte sullo schermo mi
impedisce di vederlo. Lei mi manda l’emoticon che ride con le lacrime. Poi mi
scrive che ha finito di pranzare, da sola, e mi manda quella col bacetto a
forma di cuore: aggiorniamoci - scrive. Mando a mio papà un messaggio vocale
per avvisare che torno tardi dal lavoro, quando in Italia saranno già le 5 del
mattino, quindi, niente, ci sentiamo domani. Che tenero: ha imparato a fare il
pollice in su, finalmente. Whatsapp per un ultra-settantenne dev’essere
un’altra forma di bilinguismo tardo.
I
miei studenti mi aspettano annoiati, sollevano appena lo sguardo dai loro
dispositivi elettronici per rispondere al mio saluto esaltato. Tiro giù il telo
del proiettore e ha inizio lo show. Molti di loro mi conoscono da tempo e
apprezzano il mio entusiasmo, ma quelli nuovi pensano che sicuramente tiro
cocaina prima di ogni lezione e non riescono a togliersi quello sguardo
interrogativo dal volto. Devo tenere alto il morale delle truppe, ma non sono
né Marilyn Monroe, né Mary Poppins, né tanto meno Yuja Wang. E non è una cosa
semplice quando hai davanti dei ventenni con la maturità di dodicenni e la
stanchezza esistenziale di ottantenni.
Tutto
chiaro sul periodo ipotetico, Chan? No, Dorino, non puoi leggere sempre tu. Un
altro volontario? Il narratore e l’autore non sono la stessa entità, Nikolaus. Quando
parli in spagnolo ti devi sforzare di far vibrare quella “r”, Allison. La lezione
è finita, andate in pace.
Corro alla riunione. Sudo,
naturalmente, e penso che se sto sudando il giorno di san Valentino il
riscaldamento globale - checché (se) ne dica - esiste e come. Ormai mi sono
abituata a tutto, anche a quest’estate perenne, e mentre progrediamo
nell’ordine del giorno che poteva essere interamente affrontato con una email
ben assestata, penso che però c’è una cosa a cui non ci si può abituare: il
reparto orto-frutta del supermercato.
No,
non parlo dei carciofi a 4.65 l’uno, quello si risolve non comprandoli e inserendoli
nella wish list di cose da ingurgitare in un mese quando sei a casa. Mi
riferisco piuttosto al getto d’acqua continuo sugli ortaggi. Ho chiesto: ma perché?
Mi hanno detto che è per mantenere gli ortaggi fresh. Certo, è importante che
l’aspetto di questo preziosissimo carciofo sia fresco qui, e una volta nel mio
frigo marcisca in due giorni. Ovviamente, dato il prezzo, non si potrà
solamente procedere al suo lancio nella pattumiera. Come minimo ci vorrà un vero
funerale.
E se non ci sono varie ed
eventuali, la riunione può dirsi conclusa. Ci salutiamo in fretta, con alcuni
in inglese, con altri in spagnolo, certi fanno i fighi in francese, o i
piacioni in un italiano improbabile. Ma la parte importante è che tutti hanno
(abbiamo) fretta. Sempre.
Mentre
vado a ritirare in biblioteca quei quindici libri che devo leggere questa
settimana, vedo che nel frattempo sono arrivati video demenziali in quel gruppo
che sembra un campione delle ragioni per cui ce ne siamo prima scappati dalla
Sicilia e poi andati dall’Italia. C’è di tutto: gente che preferisce lavorare a
nero per non pagare tasse e prendere la disoccupazione, gente che fa figli
senza avere un lavoro perché tanto ci pensano i nonni, gente che lavora un paio
d’ore al giorno se va bene ed ha bisogno di una vacanza, barzellette razziste,
battutone omofobe, da sbellicarsi proprio, inutili buongiorni, non richieste
buonenotti, cuori e rutti.
Alle
9 di sera rifaccio il percorso al contrario, come ogni giorno. La sua bici blu è
legata alla rastrelliera fuori dalla scuola di musica: ne avrà ancora per almeno
un’ora. Cammino per 13 minuti nella pace che solo un quartiere residenziale può
garantire e mi perdo nei miei pensieri.
In
questo lustro ne sono accadute di cose, molte più di quante potessi immaginarne
dal mio divano italiano dove, immersa nella noia e nella paranoia mitragliavo
di curriculum il WWW. Poi c’è stata la ‘merica, con tutti i suoi paradossi:
contraddizioni grandi come grattacieli, sterminate come il deserto dell’Arizona,
inspiegabili come le dinamiche che hanno portato al risultato delle ultime
elezioni. Quando ho messo piede negli USA ero intrisa di occidentalismo, ed è
buffo che l’abbia scoperto proprio nel west più west. Apprezzavo l’Europa e la
sua storia, ma dovevo venire fin qui per capire bene i suoi errori,
specialmente di valutazione e autocompiacimento, i quali, in piccolo, ho
perpetrato anch’io nella mia quotidianità. Certo, l’America ha un sacco di
difetti, belli grossi, ma è particolarmente illuminante che proprio qui io
abbia avuto la possibilità di vedere quanti di essi erano già in me,
inconsapevole snob dalla prospettiva privilegiata.
Una volta a casa, mi
metto a preparare il pesce con l’alieoli: l’uno gli è utile per ricordarsi
tutte le note del primo concerto di Brahms e l’altro gli abbassa la pressione –
razionalizzo. Mentre pelo l’aglio metto Le Iene sul tablet e c’è proprio un
servizio su Trump. La vicina di destra urla in cubano stretto a suo figlio di
non trascorrere tutto quel tempo sotto la doccia (manco fosse un carciofo) e
lui le risponde in inglese, come un vero gringo. Si sente tutto: i muri sono
sottili e in qualche modo favoriscono la proliferazione degli scarafaggi. Miami
è infatti la terza città degli Stati Uniti a vantare il più alto numero di queste
simpatiche bestiole.
Miami:
cool! Quando in Italia dico che ci vivo ho sempre a che fare con risposte
standard. Ci sono quelli che ci sono stati in viaggio di nozze e “avrebbero
voluto rimanerci per sempre”. Poi ci sono quelli che non ci sono mai stati ma
sanno tutto di lei, e vorrebbero tanto andarci e rimanerci per sempre. Poi ci
sono i propositivi: l’Italia dovrebbe essere come Miami (pur non avendo la più
pallida idea di come sia Miami in realtà)! Ed infine ci sono i
disfattisti/complottisti: che schifo l’America e TUTTI gli americani /non ci
andrei mai/l’America è qua (e parte il sottofondo di mandolini, mentre in
lontananza, sporta su un faraglione, la mamma ti urla che la cena è pronta e ti
arriva in faccia una brezza che sa di Mediterraneo e pizza Margherita).
Per
me Miami è un’altra cosa. È varietà: di gente, di idee, di genere, di razza. È
pappagalli variopinti che volano liberi nel cielo. È lucertole assurde. È PhD,
pagine, e nuovi orizzonti del sapere. È sacrificio e lavoro. È possibilità. È impossibilità.
È casa e famiglia. È lontana dalla casa e dalla famiglia. È molte cose di cui
lamentarsi. È felicità a momenti. È fortuna di esserci finiti. È zero carciofi.
È anche Cuba. Non è mare né vacanza. È interminabili videochiamate. È aria
condizionata a palla. È una parentesi tra noi e un futuro incerto. È un
apostrofo in neretto tra le parole “c” e “ho sonno”.
Così, punto la sveglia
del telefonino alle 5, lo poggio a terra e già che ci sono decido di restare su
questo fianco, come estremo atto di altruismo. Buona notte e sogni alieoli.
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